Firenze: Il Pugile seduto arricchisce la grande mostra di Palazzo Strozzi

Il Pugile seduto – Pugile
seduto (Pugile delle Terme).
Prima
età ellenistica (III secolo a.C.).
Roma,
Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, inv. 1055

Per la prima volta a Firenze
Il Pugile seduto conosciuto anche come il Pugile delle Terme
arricchisce dal 30 aprile la grande mostra in corso a Palazzo Strozzi
Potere e pathos. Bronzi del mondo ellenistico
(Palazzo Strozzi 14 marzo-21 giugno 2015)
Pugile seduto (Pugile delle Terme). Prima età ellenistica (III secolo a.C.). Roma, Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, inv.
1055
Firenze – La grande mostra di Palazzo Strozzi, realizzata in collaborazione con il J. Paul Getty Museum di Los
Angeles e con la National Gallery of Art di Washington, che propone una straordinaria panoramica sulla
statuaria bronzea ellenistica dal IV secolo a.C. al I secolo d.C., si arricchisce dal 30 aprile, alla vigilia di Expo
2015, di un’importantissima opera: il Pugile seduto o Pugile delle Terme, proveniente dal Museo Nazionale
Romano di Palazzo Massimo.
Il capolavoro, che sarà esposto per la prima volta a Firenze in occasione della mostra Potere e pathos. Bronzi
del mondo ellenistico, andrà ad affiancare statue monumentali di divinità, atleti ed eroi, è tra i pochi bronzi
conservati per intero ed è considerata una delle più famose opere scultoree dell’antichità, che esemplifica
l’arte ellenistica come pochi altri capolavori.
IL RITROVAMENTO. Scoperto nel 1885 durante alcuni interventi edili sul versante sud del Quirinale, il Pugile
era stato depositato con cura tra le fondamenta di un edificio antico.
Rodolfo Lanciani (Ancient Rome, 1888), così descrive il ritrovamento: «Sono stato presente, nella mia lunga
carriera nell’attivo campo dell’archeologia, a molte scoperte; ho sperimentato una scoperta dietro l’altra; ho
talvolta e per lo più inaspettatamente, incontrato reali capolavori ma non ho mai provato un’impressione
straordinaria simile a quella creata dalla vista di questo magnifico esemplare di un atleta semi-barbaro,
uscente lentamente dal terreno come si svegliasse da un lungo sonno dopo i suoi valorosi combattimenti».
Il Pugile rappresenta tuttora un enigma per gli studiosi di scultura ellenistica, che hanno variamente datato
l’opera tra il tardo IV secolo e l’inizio del I secolo a.C., senza trovare un accordo. Riesaminando la topografia e
le circostanze della scoperta, Heymans (2013) ha collocato la deposizione del bronzo all’epoca della
costruzione dell’edificio, non più tardi del 200 d.C. circa, e non nella tarda antichità com’era opinione comune.
Questo escluderebbe ogni associazione con le vicine Terme di Costantino, suggerite come precedente
ubicazione della statua. Si ritiene che l’area dell’edificio in questione ospitasse il santuario di Semo Sancus
(una delle più antiche divinità di Roma), eppure il motivo della deposizione della scultura tra le fondamenta
resta un mistero. Prima di giungere a Roma, la statua doveva essere stata esposta in un santuario o in un
luogo pubblico greco nella città natale dell’atleta che commemora.
DESCRIZIONE DELL’OPERA. L’atleta nudo, adulto e a grandezza superiore
al naturale, siede con i gomiti poggiati sulle ginocchia, una mano sull’altra.
Indossa guanti bordati di pelliccia con sottili cinghie di cuoio (himántes, già
noti a Platone) che fugano ogni dubbio sulla natura e la brutalità della sua
disciplina. La schiena e le spalle massicce sono incurvate mentre la testa –
che spicca dalla postura chiusa e intima del corpo – si volge bruscamente in
alto, verso sinistra. Numerose sono le alterazioni, quale risultato di remote
lesioni, cui si sovrappongono i colpi subiti nell’ultimo scontro. La perdita dei
denti superiori ha ingenerato l’affossamento del labbro corrispondente,
mentre quello inferiore rimane in aggetto e il fiato affannoso muove verso
l’alto le ciocche dei baffi intrise di sudore. La frattura dell’osso nasale e lo
spostamento delle cartilagini hanno determinato la deformazione del naso.
Rari i dettagli dell’ematoma sotto l’occhio destro e degli sfregi alle guance e
alla fronte da cui è grondato il sangue sugli arti del lato destro. Il crudo
realismo dell’immagine – un uomo pronto a sferrare colpi violenti, che ne ha
ricevuti molti a sua volta – vuole suscitare empatia nell’osservatore.
La lavorazione del bronzo intensifica la reazione emotiva. La sofisticazione tecnica si presta a uno scopo
illusionistico – come gli intarsi in rame che bordano i tagli e rappresentano il sangue che gocciola dalle ferite.
Lo zigomo destro gonfio fu gettato in una lega diversa (con meno stagno) rispetto al resto del viso, per
riprodurre la colorazione di un ematoma. Inoltre, lo spessore sottile del bronzo cavo e per sua natura più
adatto a imitare la pelle umana rispetto alla dura pietra, come emerge dalle ferite del pugile: i tagli sono
letteralmente incisi nel bronzo, mentre il sangue e la tumefazione sembrano provenire dall’interno del corpo.
In effetti, questi dettagli sono alloggiati “dentro” il metallo, non applicati sulla superficie esterna come la pittura
sul marmo.
Quest’accentuazione dell’esperienza viscerale dell’osservatore è però addolcita da un’immagine per il resto
straordinariamente idealizzata. Se il volto del pugile descrive uno stato caratterizzato da lesioni e spossatezza
fisica e mentale dopo la lotta, il resto del corpo mostra pochissimi sintomi: pur essendo seduto mostra tonus,
forza, e quasi nessun segno dell’età. La punta del piede destro è appena sollevata da terra e le braccia
scaricano il peso dell’enorme torso sulle cosce senza causare avvallamenti nella carne.
Esiste uno spiccato contrasto tra la cruda bruttezza del volto e la meticolosa simmetria e raffinatezza di capelli
e barba. Inalterati dallo sporco, dal sudore e dal sangue dell’arena, sembrano piuttosto irreali e si rifanno
chiaramente all’iconografia di Eracle. Nel contesto di questo corpo nudo di concezione classica, tuttavia, un
dettaglio insolito del pugile e la kynodésme – l’infibulazione, ovverosia il sospensorio per il prepuzio – una
pratica igienica comprovata degli atleti greci ma raramente raffigurata in scultura e mai in una statua di atleta.
Come le ferite sul viso e i guantoni rifiniti nei dettagli – quello che Zanker chiama «realismo selettivo» – la
kynodésme aggiunge un elemento contemporaneo e verosimile a questa immagine di un atleta vittorioso, un
genere di cui ci sono pervenuti pochissimi esempi originali. La scultura è stata realizzata con la tecnica della
fusione a cera persa con metodo indiretto ed è costituita da diverse sezioni, fuse in getti separati e
assemblate mediante saldatura: derivano da fusioni distinte la testa, le braccia, la gamba sinistra, gli
avambracci, il sesso e le dita medie dei piedi. A freddo sono state rifinite le unghie, la barba, i capelli e la
peluria sulla zona del petto e del pube, accuratamente incise a bulino. L’estrema cura dedicata all’esecuzione
dei dettagli è testimoniata dalla lavorazione a parte delle dita centrali dei piedi.
Paolo Moreno nella Enciclopedia Treccani dell’Arte Antica (1996)
Il volgersi laterale e verso l’alto del capo si trova allo scorcio del IV sec. nell’Eracle seduto degli stateri di
Festo, dove l’interesse dell’artista è concentrato su una situazione momentanea, secondo il principio
dell’estetica lisippea (kairòs è la personificazione e divinizzazione del “momento opportuno” e, come tante
altre divinità sorte anch’esse dalla personificazione di un’idea quali Nike, Eirene, Ploutos, appartiene ad età
abbastanza tarda.). Nel Pugile il fenomeno si rivela attraverso le agemine di rame rosso applicate sulla gamba
e sul braccio destro, compreso il guantone: esse rappresentano le gocce di sangue cadute dalle lacerazioni
osservabili sul viso, nell’istante in cui l’atleta ha girato la testa. Il brusco movimento è ulteriormente giustificato
dall’occlusione dei padiglioni auricolari: come sappiamo dalle fonti per il Dèmos o il Kairòs di Lisippo, l’autore
avrebbe trovato modo di rappresentare la «sordità» del personaggio, che si volge nello sforzo di leggere sul
volto dei giudici le parole del verdetto, o verificare con lo sguardo il plauso della folla. Rimanda al IV sec.
anche il raro dettaglio dell’ematoma sotto l’occhio destro reso con un elemento metallico fuso a parte in una
lega più scura, e successivamente saldato […]. Né trova riscontro più tardi la lavorazione delle labbra in rame
massiccio (non in lamina), fuse preventivamente e inserite nella cera, con un ancoraggio all’anima della statua
tanto saldo da impedire ogni spostamento al momento della colata della lega. Come in altri originali di età
classica, le dita centrali dei piedi erano state fuse separatamente per poter modellare liberamente tutti gli
spazi interdigitali: la lettera alpha, tracciata sotto al medio del piede sinistro, come iniziale di άριστερός ττούς,
si rendeva utile per distinguere al momento dell’assemblaggio la sezione pertinente.
Intorno al 337 la base del Polidamante di Lisippo a Olimpia, con la sua faccia superiore di un metro per lato,
offriva spazio sufficiente per ospitare una figura seduta come quella
del Museo Nazionale Romano, che ha la parte superiore dei piedi
fortemente consunta: risultato di un secolare processo di venerazione
popolare, descritto da Luciano (Deor. conc., 12) a proposito del
Polidamante. Il movimento del capo e alcuni aspetti della barba sono
comuni all’Eracle Epitrapèzios [una versione è esposta in mostra]. Per
il trattamento della muscolatura non si è lontani dall’Eracle in riposo
del tipo «Farnese Pitti». [Una versione dell’Ercole lisippeo è esposto in
mostra]. Il giudizio sull’acribia di Lisippo – «sembra propria di lui
l’espressività serbata fin nei minimi particolari» (Plinio, Naturalis
Historia, XXXIV, 65) – si attaglia alla finezza con cui sono stati
realizzati i guantoni. I polpastrelli restano liberi, consentendo
all’artefice di cesellare con esattezza le unghie, mentre le dita sono
inguainate da una pelle così sottile che lascia trasparire le articolazioni fino alle falangi: gli orli sono ribattuti
per ciascun dito e resi appariscenti da sottili inserti di rame rosso, sui quali sono incise fitte serie di punti a
suggerire le cuciture. Il cuoio che protegge il carpo, il polso e l’avambraccio conserva, rivolto all’interno, il
vello, adatto ad ammortizzare i colpi durante il combattimento; il pelame sbocca in densi riccioli al termine dei
guanti. Forti stringhe garantiscono l’aderenza dell’apparato difensivo, e al contempo fissano intorno alle mani i
micidiali cesti (sphàirai), venuti in uso nel IV sec. a.C. Sulla struttura dei capolavori di Lysippos, il verismo del
volto rivela l’innesto di una sensibilità apparentemente eterogenea. Numerose sono le alterazioni annotate,
quale risultato di remote lesioni, cui si sovrappongono i colpi subiti nell’ultimo scontro. La perdita dei denti
superiori ha ingenerato l’affossamento del labbro corrispondente, mentre quello inferiore rimane in aggetto
orientando il fiato affannoso a muovere verso l’alto le ciocche dei baffi intrise di sudore. La frattura dell’osso
nasale e lo spostamento delle cartilagini hanno determinato la deformazione del naso. Oltre al gonfiore sotto
l’occhio destro, sono evidenziati gli sfregi alle guance e alla fronte da cui è grondato il sangue sugli arti del lato
destro. Il fratello di Lisippo, Lisistrato, nel giudizio di Plinio, avrebbe rinunciato all’autonomia dal modello, alla
sublimazione dei tratti fisionomici che Lisippo perseguiva: «cominciò a rendere somiglianti i ritratti, che prima
di lui cercavano di fare quanto più belli possibile» (Naturalis Historia, XXXV, 153); a tal fine l’artefice aveva
perfezionato la tecnica del calco in gesso, traendo impressioni dirette dal vivente. La compenetrazione
dell’eventuale intervento di Lisistrato nella trascendente stanchezza del vincitore è tale da rendere inscindibile
l’attribuzione. La patologia del soggetto, studiata sulla maschera di gesso, è gestita al di là del particolare
penoso in una visione tesa a proporzionare illusivamente le parti, attenta allo scorcio, alla potenza e insieme
allo slancio della statua collocata su un elevato piedistallo. Si tratta se mai di un’esecuzione a quattro mani
che vede ancora convivere in un’alta «maniera» le diverse tendenze della scuola, destinate a svilupparsi in
una vivace dialettica.