The way of the dragon |
Spazio Oberdan Milano
Viale Vittorio Veneto 2
HONG KONG MARTIAL ARTS FILM
Dal 7 al 12 luglio
Ingresso libero fino ad esaurimento posti
Dal 7 al 12 luglio 2015 presso Spazio Oberdan, la rassegna Hong Kong Martial Arts Film presenta una selezione dei principali film di arti marziali, in particolare il kung fu, di Hong Kong degli ultimi 50 anni. La rassegna è organizzata da Hong Kong Economic and Trade Offic di Bruxelles in collaborazione con Hong Kong International Film Festival Society e Fondazione Cineteca Italiana.
In programma sei lungometraggi, tutti classici come The Way of the Dragon con Bruce Lee, Spooky Encounters con Sammo Hung, Duel to the Death con Ching Siu-tung, The Young Master con Jackie Chan, Righting Wrongs con Corey Yuen e Once Upon a Time in China II con Jet Li. La retrospettiva cinematografica, coordinata dall’ Hong Kong International Film Festival Society, è uno degli eventi organizzato in Europa dall’Ufficio economico e commerciale di Hong Kong a Bruxelles per celebrare il cinquantesimo anniversario della sua creazione a Bruxelles.
Da segnalare che il giorno mercoledì 8 luglio, alle ore 19, nel foyer dello Spazio Oberdan, verrà offerto un buffet per tutti gli spettatori del film delle ore 20.15 Unce upon a Time in China II, che sarà introdotto dal Ministro per l’Ambiente di Hong Kong Mr. Wong Kam-sing.
SCHEDE DEI FILM E CALENDARIO
Martedì 7 luglio (h 18)
Righting Wrongs
R.: Corey Yuen. Sc.: Szeto Cheuk-hon, Barry Wong. Int.: Yuen Biao, Cynthia Rothrock, Melvin Wong, Corey Yuen, Wu Ma, Louis Fan, Roy Chiao. Hong Kong, 1986, 96’, v.o. cantonese/inglese, sott. It.
Negli anni Ottanta il cinema d’azione di Hong Kong, per gli amanti dell’action nel mondo, era considerato un marchio di lusso dei B-movie, e Righting Wrongs (aka Above the Law) di Corey Yuen ha tutti i requisiti per essere considerato uno dei suoi prodotti d’esportazione più eccitanti. Yuen Biao, il sottovalutato “terzo fratello” del triumvirato della recitazione cui appartengono Jackie Chan e Sammo Hung, interpreta Hsia Ling-Cheng, un avvocato frustrato che dispensa la giustizia con calci, pugni e una buona dose di dolore. Mentre Hsia sovrintende un processo per droga in cui sono implicati alcuni colletti bianchi, un killer (Peter Cunningham) vestito da poliziotto si intrufola in un complesso residenziale per uccidere il testimone chiave. A dirla tutta, l’assassino uccide l’intera famiglia del testimone, compresi diversi bambini, a sottolineare la natura spregevole degli antagonisti nel film.
Con la morte del teste cadono i capi d’accusa contro gli imputati, ma Hsia e il giudice (un cameo del grande attore Roy Chiao) trovano una rapida soluzione a questa ingiustizia: farsi giustizia da soli. In breve, Hsia affronta uno degli imputati e le sue guardie del corpo in un edificio adibito a uffici in uno scontro che manda in pezzi le vetrate. Arriva l’ispettore Sindy Si (Cynthia Rothrock), dura e pragmatica, che fa squadra con il trasandato investigatore Bad Egg (il regista Corey Yuen) per indagare sulle violente uccisioni di Hsia. Ben presto i due detective si mettono a pedinare Hsia, ma sono anche sulle tracce del giovane Man (il futuro attore d’azione Louis Fan), che ha scoperto per caso chi è il vero cervello che ha architettato i crimini… Considerando tutti i suoi cliché, Righting Wrongs sembrerebbe il classico prodotto americano per il mercato dell’home video, se non fosse per l’azione strabiliante e per le interessanti svolte cupe della trama. Il film sorprende con la sua narrazione, in quanto ben pochi si salvano – a cominciare dai bambini uccisi senza tanti complimenti all’inizio – e in sostanza propone un punto di vista moralmente torbido sulla corruzione della polizia e sulla giustizia fai-da-te. Il tono cupo del film in realtà non era adatto per tutti i territori, cosicché fu girato un finale alternativo più soft, che rifletteva una presa di posizione morale e manteneva in vita qualche personaggio in più. Ad ogni modo, quello che conta è l’azione, e Righting Wrongs regala sequenze di combattimento veloce, duro e senza compromessi. Il film passa bruscamente da un pezzo forte all’altro, che a ogni svolta narrativa sviluppano un’azione straordinariamente creativa. La formazione di Corey Yuen presso l’Opera di Pechino (Yuen faceva parte, insieme a Yuen Biao, Jackie Chan e Sammo Hung, della troupe delle “Sette Piccole Fortune”) traspare dalle acrobazie e dalle intricate coreografie, in cui ogni movimento porta al movimento successivo con incredibile velocità e una precisione senza sbavature. Soprattutto, va detto che ogni sequenza d’azione sembra dolorosa. Gli attori saltano da altezze pericolose, vengono investiti da automobili, sono lanciati attraverso vetri o contro il cemento, crollano rovinosamente al suolo. Non si tratta qui di azione aggraziata, ma di un’attività vigorosa e spaccaossa, che fa male. La ciliegina sulla torta è Yuen Biao che viene trascinato da un aereo monomotore in decollo e rimane a penzolare a centinaia di metri da terra. Era legato con delle funi, ma la dedizione e il coraggio degli autori sono estremamente convincenti. Righting Wrongs permette inoltre a Cynthia Rothrock di brillare; questa attrice e stuntwoman americana è un’icona minore ma sempre importante del cinema d’azione di Hong Kong, e nel film tiene abbondantemente testa a Yuen Biao, sia al suo fianco che contro di lui. Purtroppo i film come Righting Wrongs non sono più in voga a Hong Kong. Il pubblico ora preferisce i patinati film hollywoodiani alle produzioni locali nude e crude ed è un vero peccato perché nell’azione pratica e negli stunts c’è mestiere, spettacolarità e abilità. Si perdoni l’iperbole, ma se la coreografia d’azione può essere considerata una forma d’arte, allora Righting Wrongs dovrebbe stare in un museo.
Ross Chen
Mercoledì 8 luglio (h 20.15)
Once upon a Time in China Il
R.: Tsui Hark. Sc.: Tsui Hark, Charcoal Tan, Chan Tin-suen. Int.: Jet Li, Rosamund Kwan, Max Mok, Donnie Yen, David Chiang. Hong Kong, 1992, DCP, 113’, v. o. cantonese/inglese, sott. it.
L’eroe popolare cantonese Wong Fei-hung ha ispirato innumerevoli film e serie televisive, ma la serie di film Once Upon a Time in China di Tsui Hark è la più popolare, a livello globale, che sia stata tratta dalla sua figura. I film della serie, iniziata nel 1991, hanno fatto diventare il campione di wushu Jet Li una star del cinema a livello internazionale. Le interpretazioni di Li nei panni di Wong sono indubbiamente le più famose da quando Kwan Tak Hing si è cimentato con questo personaggio in decine di film tra gli anni Quaranta agli anni Sessanta. Negli anni Novanta i film di Kwan sulla figura di Wong Fei-hung erano datati e la serie di Tsui ha rinvigorito la leggenda di Wong con stile energico e solida azione in stile hongkonghese, utilizzando velocità e complesse coreografie per realizzare un cinema di arti marziali audace e moderno.
Un ulteriore elemento che distingue i film della serie Once Upon a Time in China di Tsui Hark dalle precedenti iterazioni (oltre che dal reboot della storia di Wong Fei-hung in Rise of the Legend del 2014) è l’efficace inclusione di nazionalismo e politica nel cinema di arti marziali. Il sequel di Tsui del 1992, Once upon a Time in China II, rappresenta l’esempio perfetto della sua opera, nell’abile intreccio tra storia e temi politici da un lato e sbalorditive sequenze di combattimento, del coreografo Yuen Woo-ping, dall’altro. La trama del film in realtà prefigura l’acclamato Bodyguards and Assassins (2009), in quanto entrambi i film costruiscono una narrazione romanzata intorno al dottor Sun Yat-sen, il rivoluzionario noto come “Padre della Nazione” per il ruolo avuto nella fondazione della Repubblica di Cina.
Durante l’ultimo periodo della dinastia Qing, Wong Fei-hung va a Guangzhou per partecipare a un convegno di medicina, accompagnato dalla sua fiamma Aunt Yee (Rosamund Kwan) e dal discepolo Leung Foon (Max Mok), ma entra in conflitto con la Società del Loto Bianco, una setta fanatica dedicata a espellere gli stranieri dalla Cina. Spinto dalla propria natura virtuosa, Wong si ritrova a proteggere espatriati inglesi e cinesi del posto, combattendo tanto la Società del Loto Bianco quanto le autorità Qing, che sono capeggiate dal comandante Lan (Donnie Yen), talmente ossessionato dalla cattura di Sun Yat-sen (Zhang Tie-lin) da lasciarsi andare a pratiche scorrette. Il film è infarcito di elementi commerciali come humour e romanticismo, mitigati però da Tsui con i temi del nazionalismo e dell’umanesimo.
La guerra di Wong Fei-hung contro nemici corrotti e razzisti genera un’esaltante narrazione della lotta tra il bene e il male. Arricchiscono la storia vari dettagli sulla cultura occidentale in opposizione alla cultura orientale, efficacemente presentati in un montaggio che alterna immagini della vita cinese in evoluzione a scontri tra le autorità e la Società del Loto Bianco. Il divario tra Est e Ovest si esprime anche nell’utilizzo che fa Wong della medicina orientale, che lascia scettici gli inglesi ma alla fine li conquista, quando Wong usa l’agopuntura per curare coloro che sono stati feriti dalla Società del Loto Bianco. Questi temi del dualismo Est-Ovest, tradizione-modernità, religione-umanesimo non rappresentano l’interesse primario del film, eppure gli conferiscono profondità.
Once Upon a Time in China II può essere letto come un punto di vista ambivalente sullo status indefinito di Hong Kong nei primi anni Novanta, quando cioè era un territorio strattonato in un tiro alla fune politico e culturale tra Oriente e Occidente. Mentre la presenza di tutti questi elementi innalza la pellicola al di sopra dello status di semplice film di kung fu, i combattimenti in sé sono di altissimo livello. Yuen Woo-ping conferisce all’azione un impatto dinamico e una grazia da balletto, ed è da notare il contrasto di stili di combattimento tra Jet Li e la futura superstar Donnie Yen. I movimenti di Yen sono appariscenti, mentre Li combatte in un modo rapido e funzionale che, proprio come lo stesso personaggio di Wong Fei-hung, è decisamente retto e fermo. Mentre Tsui Hark ha conferito uno spessore tematico alla leggenda di Wong Fei-hung, Jet Li ha fornito tutto l’eroismo e l’umanità necessari per collocare i film della serie Once Upon a Time in China nel posto che meritano tra i grandi classici del cinema di Hong Kong.
Ross Chen
Segnaliamo alle ore 19, nel foyer dello Spazio Oberdan, verrà offerto un buffet per tutti gli spettatori del film delle ore 20.15.
La proiezione sarà introdotta dal Ministro per l’Ambiente di Hong Kong Mr. Wong Kam-sing.
Giovedì 9 luglio (h 18)
The Young Master
R.: Jackie Chan. Sc.: Lau Tin-chi, Tung Lu, Tang Kin-sang. Int.: Jackie Chan, Wei Pai, Yuen Biao, Hwang In-shik, Shek Kin, Lily Li. Hong Kong, 1980, 105’, v.o. cantonese, sott. it.
Alla fine degli anni Settanta l’attore e stuntman Jackie Chan è diventato in breve tempo il nome più famoso del cinema d’azione di Hong Kong fin dai tempi di Bruce Lee. Dopo aver studiato all’Opera di Pechino e dopo averci dato dentro per anni lavorando ai margini del cinema locale, Chan ha sfondato nel 1978 grazie a un paio di film di kung fu diretti dal principale coreografo azione, Yuen Woo-ping: Snake in the Eagle’s Shadow e Drunken Master. Chan ha portato sullo schermo un tipo di azione delle arti marziali condita dal parapiglia e contrassegnata non solo da acrobazie potenzialmente letali ma anche da un atteggiamento comico maldestro e affascinante. Tutte queste qualità cinematografiche risultano molto evidenti in The Young Master, opera seconda di Chan come attore-regista nonché suo primo film realizzato dopo aver firmato il contratto con la major Golden Harvest.
Chan interpreta Fratello Lung, un giovane che restituisce l’onore alla scuola di kung fu che lo ha accolto da orfano e allevato. I problemi iniziano a manifestarsi già all’inizio del film, quando Lung prende parte ad una “danza del leone” contro una scuola rivale per poi scoprire, a metà del combattimento, che l’avversario principale è in realtà il suo compagno di scuola Jing Keung (Wei Pai), che ha accettato questa esibizione di nascosto. Quando poi Keung si porta una prostituta nella scuola di arti marziali che frequenta insieme a Lung, ed emergono alcuni dettagli del tradimento della danza del leone, il responsabile, Maestro Tien (Tien Feng), si indigna e Keung viene mandato via. La catena di eventi successiva però copre di umiliazione Master Tien e la scuola, e Lung si mette in viaggio per riportare indietro Keung.
Anche in questa fase iniziale della sua carriera come regista gli elementi fondamentali del marchio Jackie Chan sono già presenti. Notoriamente, Chan si è formato all’Opera di Pechino e faceva parte della troupe delle “Sette Piccole Fortune”, e fin dall’apertura di The Young Master attinge al patrimonio culturale e alla tradizione. Il combattimento di Chan nella “danza del leone” combina acrobazie mozzafiato e forza pura, e utilizza l’evento per dare vita a una lotta emozionante ma senza violenza (che sarebbe stata poco adatta per l’eventuale uscita in occasione del Capodanno cinese). La decisione di Chan di abbandonare la brutalità continua anche nel prosieguo della trama: nelle scene di combattimento Chan ricorre a espedienti comici come lo scambio di persona e gli avversari sono feriti o messi fuori combattimento, ma mai uccisi: è una caratteristica chiave di Chan, che si ritrova anche quest’anno, 2015, nella sua interpretazione di Dragon Blade.
Il ventaglio bianco ha una struttura slegata e a volte divaga, ma brilla per i suoi momenti puramente comici – in particolare quando sullo schermo c’è l’attore veterano Shek Kin, nei panni di un funzionario federale. Il pregio maggiore del film, però, risiede nelle scene d’azione, che hanno indubbiamente permesso al film di raggiungere il record al botteghino locale. Dopo la “danza del leone” iniziale, le scene di combattimento spaziano da molto serio (quando Keung si fa invischiare dai banditi) a meravigliosamente giocoso, per esempio quando Chan si imbatte in Yuen Biao, membro anch’egli delle “Sette Piccole Fortune”, in una serie di assalti all’aperto, e utilizza solo delle panche come oggetti di scena, o ancora nelle agili scene in cui Chan brandisce un grande ventaglio bianco.
Il culmine di The Young Master è costituito dalla resa dei conti tra Chan e il tosto fratello Kim (Hwang In-shik, maestro di hapkido coreano, habitué del cinema hongkonghese), un personaggio crudele che emerge a margine della ricerca di Jing Keung per rivelarsi poi uno dei principali avversari. Per il finale Chan riporta l’azione alle sue basi essenziali, ambientando lo scontro su una collina spoglia e liberando l’inquadratura da armi e oggetti di scena. Mentre i due avversari si prendono a cazzotti per terra, ci si stupisce di come gli attori abbiano potuto portare a termine le riprese senza farsi male sul serio, e come Chan in particolare sia potuto passare a girare scene sempre più estreme negli anni a venire.
Tim Youngs
Venerdì 10 luglio (h 18)
Spooky Encounters
R.: Sammo Hung. Sc.: Sammo Hung, Huang Ying. Int.: Sammo Hung, Chung Fat, Peter Chan Lung, Wu Ma, Lam Ching-ying, To Siu-ming. Hong Kong, 1980, 102’, v.o. cantonese, sott. it.
La commedia horror di arti marziali è un genere cinematografico popolare nel cinema di Hong Kong, e pochi film la rappresentano meglio di Spooky Encounters (aka Encounters of the Spooky Kind) del regista-sceneggiatore-divo Sammo Hung. Questo mix di generi diversi, datato 1980, è il precursore del giustamente classico Mr. Vampire (1985), dei suoi sequel probabilmente classici e di una serie di film con titoli descrittivi come The Dead and the Deadly (1983), Vampire vs. Vampire (1990) e Magic Cop (1990).
Oltre a unire horror, commedia e kung fu, Spooky Encounters e i suoi successori si sono appropriati del folklore e della religione cinese, facendo un uso intelligente di rituali buddhisti e superstizioni per intrattenere il pubblico cinese al quale è rivolto. Ma anche il pubblico internazionale potrebbe trovarlo divertente: nonostante i riferimenti culturali potenzialmente impenetrabili e i cattivi al limite del ridicolo (gli immancabili morti viventi sono i vampiri cinesi che procedono saltellando, noti come geung si), la combinazione di arti marziali e di orrore spettrale si rivela un mix esotico e irripetibile. Non troverete un film come questo da nessun’altra parte.
Spooky Encounters inizia lentamente, e passa attraverso tutta una serie di eventi prima di introdurre la vicenda principale. Bold Cheung (Sammo Hung) è un burino coraggioso ma ottuso che si mette costantemente nei guai. Cheung viene tradito dalla moglie (Leung Suet-mei) e dal suo capo, il Maestro Tam (Huang Ha), che ordisce un complotto per assassinare Cheung, onde evitare che l’adulterio venga scoperto. Tam incarica un suo delegato di coinvolgere Cheung in scommesse spaventose, come trascorrere una notte in un vecchio capannone con un cadavere, chiedendo contemporaneamente al sacerdote taoista mercenario Chin Hoi (Peter Chan Lung) di animare il cadavere usando la magia nera. Bold Cheung sembra spacciato, ma riceve il competente aiuto di Tsui (Chung Fat), un altro sacerdote taoista che si oppone all’uso malvagio che fa Chin Hoi delle loro arti. Grazie alla consulenza di Tsui, Cheung sfugge alla morte e scopre l’identità del suo nemico, ma non prima di venire picchiato, maledetto, posseduto e molto altro ancora.
Nel suo insieme, Spooky Encounters ha una struttura episodica e manca di una tensione in crescendo, ma propone a intervalli regolari alcune scene estremamente divertenti. Gli effetti speciali sono decisamente poco tecnologici, ma l’illuminazione spettrale e la scenografia sono efficaci, e ogni sequenza è scandita da tempi comici impeccabili e prodezze fisiche del grosso e incredibilmente agile Sammo Hung. Il primo incontro di Cheung con un geung si è spaventoso e divertente insieme, con una coreografia dai tempi perfetti che offre in ugual misura azione e risate.
In un’altra sequenza, Chin Hoi domina il braccio di Cheung, in modo che Sammo Hung debba combattere gli assalitori e il suo stesso braccio simultaneamente. Nel confronto finale con Chin Hoi, azione e commedia raggiungono un passo febbrile, quando Cheung incarna attraverso il proprio corpo il Dio Scimmia, con conseguente stridio scimmiesco di Sammo Hung mentre fa King Kong-fu appeso ai ponteggi di bambù. Se non altro, Spooky Encounters va tenuto in considerazione per le stupefacenti prestazioni fisiche di Hung, abile e convincente come in qualsiasi recitazione tradizionale.
Spooky Encounters presenta alcuni elementi potenzialmente inquietanti. Un pollo viene ucciso davvero davanti alla macchina da presa per un rituale taoista e un nemico di sesso femminile riceve un pestaggio eccessivo che vorrebbe essere divertente, ma risulta soltanto meschino. Questi elementi potrebbero lasciare l’amaro in bocca al pubblico moderno, ma in realtà non dovrebbero sminuire la portata del film. Se la correttezza politica e la tecnologia filmica potrebbero essere soggette a trasformazioni e miglioramenti, la creatività e la spettacolarità della regia d’azione di Sammo Hung e le sue prestazioni fisiche rimangono eterne.
Ross Chen
Sabato 11 luglio (h 19)
Tha Way of the Dragon
R. e sc.: Bruce Lee. Int: Bruce Lee, Nora Miao, Wei Ping-ao, Wang Chung-hsin, Tony Liu. Hong Kong, 1972, 98’, v.o. cantonese/inglese, sott. it.
Bruce Lee era già sulla cresta dell’onda quando diresse il suo primo lungometraggio, L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente (The Way of the Dragon). L’ex divo bambino di Hong Kong, diventato attore ed esperto di arti marziali negli Stati Uniti, aveva fatto ritorno in territorio hongkonghese e suscitato subito scalpore con Il furore della Cina colpisce ancora (The Big Boss, 1971) e poi con Dalla Cina con furore (Fist of Fury, 1972). I due film, diretti da Lo Wei, sfruttavano l’incredibile insieme di competenze di Lee: riflessi fulminei, movimenti di altissima precisione e un atteggiamento sicuro, che gli permettevano di trasformarsi in un lampo da amabile uomo qualunque a superman tutto muscoli.
Lee, che si era già occupato della regia di alcune sequenze di azione nei primi due film e in altre produzioni negli Stati Uniti, moriva dalla voglia di dirigere un suo film. Con una nuova società di produzione, formata da lui stesso e dal capo della Golden Harvest Raymond Chow, Lee cercò di innalzare di un paio di livelli gli standard del cinema di Hong Kong con l’ambizioso L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente, ambientato in Italia. Il risultato gli diede ragione: alla fine il debutto alla regia di Lee fece registrare un nuovo record per il botteghino di Hong Kong quando uscì in sala, nelle ultime settimane del 1972.
Il pubblico fa la conoscenza di Tang Lung, il personaggio interpretato da Lee, al suo arrivo all’aeroporto di Roma, affamato e in grado di parlare soltanto in cantonese. Tang è un ragazzo hongkonghese di campagna che è stato mandato in Italia per aiutare il parente di un suo amico, proprietario di un ristorante cinese sul quale ha messo gli occhi una banda di malviventi. Tang, arrivato al locale, inizialmente tiene nascoste le sue abilità, ma poco tempo dopo i cattivi si fanno vivi e gli forzano la mano, scatenando una rissa in un vicolo.
Il capo dei malavitosi (Jon Benn) non manda giù facilmente la reazione di Tang, e per tutta risposta ingaggia dei combattenti stranieri per metterlo fuori combattimento e impadronirsi del ristorante. Quando i primi scontri con i lottatori stranieri (Robert Wall e Hwang In-shik) non portano ad alcun risultato, viene chiamato il campione di arti marziali americano Colt (Chuck Norris) per contrastare le formidabili capacità di Tang.
Per tutto il film, Lee si fa notare anche per la sua abilità dietro la macchina da presa. A parte le spettacolari arti marziali, L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente testimonia un tocco comico particolare, che aumenta la piacevolezza del film, stemperandone i momenti più cupi. Il fattore comico di Lee spazia dalla comicità fisica, come quando nelle vesti dello sfortunato campagnolo non riesce a ordinare il cibo, alle battute scaltre in stile hongkonghese, come quando Lee definisce alcune rovine romane una baraccopoli con un impressionante potenziale di riqualificazione. Dopo una serie di battaglie che costantemente alzano la posta sul fronte delle arti marziali, il pezzo forte di L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente è la resa dei conti finale, all’interno del Colosseo – una scena estremamente iconica, come il finale nella sala degli specchi del film successivo di Lee, I 3 dell’Operazione Drago (Enter the Dragon). La regia riprende Lee in una luce estremamente lusinghiera – i suoi muscoli guizzanti e i suoi agilissimi movimenti sono messi perfettamente in risalto nelle scene di riscaldamento e appaiono in contrasto con l’aspetto muscoloso di Norris. Inoltre, in questo modo, la scena viene colta dal punto di vista di un esperto, pronto a riflettere la filosofia delle arti marziali accennata nelle scene precedenti e a mostrare come combattono due campioni. Il corpo a corpo con Norris si sviluppa con cura, con i combattenti che prima si riscaldano a lungo, poi si soppesano l’un l’altro tra i primi attacchi e, alla fine, si impegnano in uno scontro feroce, ma con un certo rispetto l’uno per l’altro.
L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente è stato l’unico lungometraggio che Lee ha potuto completare come regista, visto che morì esattamente sette mesi dopo l’uscita del film, lasciando incompiuto un altro progetto registico. Considerando il riuscitissimo mix di facile divertimento e azione complessa di L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente, i risultati di Lee e il suo talento naturale, sia come artista marziale che come regista, sono decisamente palesi. Un gran numero di imitatori seguirà la scia di Lee, ma ci vorranno anni prima che un altro talento di arti marziali possa convincere pienamente le masse di spettatori di Hong Kong e degli altri paesi.
Tim Youngs
Domenica 12 luglio (h 17)
Duel to the Death
R.: Ching Siu-tung. Sc.: Manfred Wong, David Lai, Ching Siu-tung, Int.: Norman Tsui, Damian Lau, Flora Cheung, Eddy Ko, Paul Chang. Hong Kong, 1983, 83’, v.o. cantonese, sott. it. Ingresso libero
Durante tutti gli anni Ottanta e oltre, il regista e coreografo di arti marziali Ching Siu-tung si è dimostrato abile nel mettere in scena le sequenze d’azione del cinema hongkonghese come spettacoli iperattivi, stravaganti e bizzarri. Alcuni degli esempi più innovativi ed elettrizzanti si ritrovano nel suo primo film da regista, Duel to the Death (1983), un’opera che ha ancora una grande valenza all’interno di una filmografia costellata di classici. Il duello del titolo è quello che si svolge ogni dieci anni tra combattenti cinesi e giapponesi. Questa volta, ad affrontarsi sono lo spadaccino cinese Bo Ching-wan (Damian Lau) e il maestro di arti marziali giapponese Hashimoto (Norman Tsui). Il combattimento è aperto solo a un gruppo selezionato di spettatori, tutti campioni di arti marziali; ma quando sia questi ultimi che i due contendenti, ognuno per conto suo, si fanno strada a piedi verso il luogo dell’incontro, sopraggiungono dei ninja che si mettono in mezzo in modo spettacolare. Gli spettatori incontrano i ninja proprio all’inizio del film, quando si infilano in una biblioteca a fare copie di un testo sulla scherma cinese e poi si scontrano con dei monaci in un turbinio notturno di balzi volanti, sparizioni e attentati suicidi. Da allora in poi, Ching si scatena con il potenziale creativo dei misteriosi guerrieri vestiti di nero, conferendo loro poteri surreali di grandissimo effetto cinematografico. Se non sono sufficienti ninja su aquiloni, ninja che formano un ninja gigante, e una ninja nuda, c’è anche un ninja la cui testa decapitata emette un avviso prima di esplodere.
Che ci siano i ninja in scena o no, Ching calca la mano per rendere i combattimenti sempre più stupefacenti man mano che il film prosegue. Le tecniche alla base non erano necessariamente una novità nel 1983: il regista King Hu, per esempio, aveva lavorato con il coreografo Han Ying-Chieh negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta per innalzare il livello dei film wuxia con coreografie emozionanti, che utilizzavano trampolini, cavi e un montaggio frenetico. Ching si basa sugli stessi metodi, ma con Duel to the Death innalza quest’arte a livelli inimmaginabili. Verso la fine del film, la scena di uno scontro tra Bo Ching-wan e un capo ninja sarebbe abbastanza scatenata per concludere alla grande un qualsiasi altro film, ma qui è solo una sequenza di riscaldamento prima di un finale sensazionale con resa dei conti in cima a una scogliera. La coreografia d’azione di Ching Siu-tung ha fatto brillare la reputazione di Duel to the Death nel corso degli anni, ma nel film c’è anche molto di più da ricordare. La sceneggiatura offre un ottimo materiale da wuxia, nello sviluppo dei due personaggi principali che tratteggia con forti contrasti (uno spadaccino esalta la lotta per la gloria della nazione e della famiglia, mentre per l’altro l’onore significa semplicemente sterminare un avversario), facendoli stare insieme mentre si avvicina il loro combattimento. E quando intorno a loro si delinea un gioco di potere di più ampia portata, le loro opinioni sul successo e sul fallimento, sull’integrità e sulla futilità influenzano la progressione verso la grande battaglia e la sua sconcertante conclusione. Negli anni successivi l’azione in Ching evolverà verso forme più sofisticate di wuxia e di cinema fantasy, ma per la sua assoluta stravaganza, abbinata alla evocativa cavalleria del cinema di arti marziali, Duel to the Death difende benissimo il suo posto come pietra miliare del cinema di Hong Kong.
INFO:
T 02.87242114 / info@cinetecamilano.it / www.cinetecamilano.it
MODALITÀ D’INGRESSO:
Ingresso libero fino ad esaurimento posti