Belvedere
con Pitti
e Prospettiva vegetale
Sergio Risaliti
Giuseppe Penone, Albero folgorato, 2012 © Archivio Penone |
In un dipinto eseguito da Giusto Utens (Iustus van Utens)
tra il 1599 e il 1609, una lunetta della serie dedicata alle ville e ai
giardini medicei, si apprezza una veduta a volo d’uccello di Palazzo Pitti col
giardino di Boboli e Forte di Belvedere. Il diarista fiorentino Agostino Lapi
riportava in data 28 ottobre 1590: “si murò la prima pietra del fondamento
primo della nuova muraglia e maravigliosa fortezza, posta sopra Porta San
Giorgio… nell’Orto de’ Pitti li inventori e li architettori principali furono
il signor Giovanni figlio del Granduca Cosimo e Messer Bernardo Buontalenti di
ingegno elevatissimo”.
Per la realizzazione quindi di questa formidabile fortezza “a guardia della
città e del palazzo” il Granduca Ferdinando si appoggiò a due architetti
esperti nelle fortificazioni: Bernardo Buontalenti e Don Giovanni de’ Medici, fratellastro dello
stesso Granduca. Ma nella lunetta il tema difensivo si stempera in una visione paesaggistica
che allontana lo spettro della guerra, il tema della difesa. La natura cinge d’assedio
la città del Brunelleschi e di Masaccio, di Botticelli e Michelangelo.
L’artificio umanizza l’ambiente, perfino il creato, in un linguaggio che è
quello del rinascimento in cui anche la magia e l’alchimia trovarono le proprie
espressione figurative.
Facendo ideale
riferimento a questo programma urbano dell’età aurea di Ferdinando de’ Medici
(Belveder con Pitti), possiamo oggi contemplare in stretta contiguità gli spazi
verdi di Boboli e quelli più severi del Belvedere tenuti assieme, non dalla
veduta panoptica di Utens, quanto eccezionalmente dal logos scultoreo di Giuseppe
Penone il quale, con Prospettiva vegetale,
inanella un ensemble di opere in bronzo
e marmo che, nel loro dispiegarsi di livello in livello, connettono e saldano
il giardino con la fortezza, la reggia con la palazzina del Buontalenti. Alberi
di bronzo e blocchi di marmo carrarino marcano un percorso artistico in cui
esperienza del mondo naturale e forme
della scultura si saldano e si richiamano a vicenda, evidenziando il vigoroso
ma sensibile confronto tra i processi formativi naturali e quelli creativi
dell’arte.
Nella storia recente
nessun artefice aveva avuto tale onore, nessuno aveva osato tale progetto, disegnato
simile poetico percorso. Per la prima volta un artista ha installato le sue
sculture contemporaneamente al Forte di Belvedere e nel Giardino di Boboli.
Nelle sue diverse postazioni il tracciato apre a una variata molteplicità di
scorci e prospettive, di panorami e visuali tra i due contesti urbano e
paesaggistico, su Firenze e il suo patrimonio architettonico. E così,
aggiungendosi altri “belvedere”, la Fortezza di San Giorgio cede la sua
stereotipata funzione di pittoresco affaccio, o meglio di terrazza affacciata
sulla città di Arnolfo e Giotto, di Brunelleschi e Alberti, di Michelangelo e
Vasari. Percorrendo la Prospettiva vegetale
ideata da Giuseppe Penone, il Forte di Belvedere non è più l’unico palcoscenico
per l’arte moderna e contemporanea da
cui poter ammirare Firenze, sul cui piano costruire il dialogo-confronto tra
passato e presente. Altre soglie per lo sguardo possono essere individuate
laddove Penone ha collocato alcune sue sculture: una delle due terrazze adiacenti
la Kaffeehaus, lo stradone tra la Grotta del Buontalenti e l’Anfiteatro. Tuttavia
l’opera di Penone non si lascia sorvolare per proiettare lo sguardo verso la meravigliosa
grandiosità del passato con le sue architetture, con le sue geometrie e fantasie. Le Anatomie
in marmo e i grandi alberi in bronzo,
squarciati da un fulmine, dorati o con pietre di fiume depositate tra i rami,
oppongono la loro presenza plastica e il pensiero che le ha forgiate. Dopo le
forme antropomorfe di Henry Moore, protagonista di una storica esposizione sui
bastioni di Forte di Belvedere nell’estate del 1972, e il tavolo con pietra
serena e frutta di Mario Merz, realizzato per “Belvedere dell’arte” nel 2003,
sempre sulle terrazze della Fortezza di San Giorgio, è sicuramente la linea di
‘alberi’ in bronzo a farsi paradigma di una inedita percezione dell’orizzonte
fiorentino, che qui coincide con l’orizzonte rinascimentale. Penone organizza
una linea d’attacco e non di difesa restituendo miti e sacrali percezioni all’uomo di oggi in reale dialogo con la natura e il
paesaggio.
Inoltre, sempre seguendo
le opere installate da Penone nel giardino mediceo, la Palazzina del Belvedere
in alto, ci appare piuttosto villa che fortilizio. Ad esempio, dall’Anfiteatro
dove in linea con l’obelisco l’artista ha collocato un albero di bronzo con
elementi in oro e granito (Luce e ombra,
2011), e pure da uno dei livelli superiori del giardino dove il visitatore
arriva a scoprire Biforcazione, un tronco
di bronzo con innestato il calco del braccio destro dell’artista che funge da
bacino di scolo per uno zampillo
d’acqua.
Giuseppe Penone rivela
la sua poetica nella seconda metà degli anni Sessanta, e sin dal suo esordio
artistico fonda la sua ricerca attorno al rapporto uomo-natura, scultura-mondo
vegetale. Giovanissimo ottiene riconoscimenti nazionali e internazionali e dal
1969 è tra i protagonisti dell’Arte Povera. La sua opera ha varcato le porte
dei più prestigiosi musei del mondo: il Guggenheim e il MOMA di New York, la
Tate Gallery di Londra, la Kunstalle di Basilea, lo Stedelijk Museum di Amsterdam,
il Castello di Rivoli, il Centre Pompidou di Parigi, il Toyota Municipal Art
Museum in Giappone. Recentemente, la Reggia Reale di Venaria in Piemonte e quella
di Versailles in Francia hanno celebrato la sua scultura monumentale. Come altri
artisti della sua epoca, Penone ha optato inizialmente per materiali e tecniche
non tradizionali, utilizzando anche il proprio corpo in azioni che
trasformavano la performance in nuova invenzione scultorea. Mai come oggi
sembra attuale, anzi cogente la sua lezione tutta incentrata in una relazione
poetica con la Madre Terra. La materia sia essa legno, marmo, bronzo,
terracotta o altro viene ad essere vivificata dal gesto dell’artefice in una
costante relazione tra corpo e forme vegetali, tra bios e poiesis,
tra luce e materia. Una serie di opere sono ormai entrate a far parte della
storia contemporanea dell’arte. Tra queste, ricordiamo il Soffio in terracotta, oltre a Nero assoluto d’Africa, Albero di 12 metri, Cedro di Versailles; oppure, Anatomia e i Verdi del
bosco su tela. Infine Idee di
pietra o In bilico, dove
grandi macigni si trovano posati come un nido di pietra tra i rami di un grande
albero, come fossero resti di una azione naturale imprevedibile, impressionanti
e misteriose come meteore cadute dal cielo.
Nelle sue opere
riconosciamo il corpo, gli arti, materiali naturali come la terra, le foglie,
il legno, spine di acacia, e anche pietre di fiume, oltre a tronchi, rami,
fusti e cortecce. In un certo senso ha
pure plasmato l’aria che respiriamo e l’acqua di un ruscello fissando sul marmo
o nella terracotta il flusso della corrente, il lavorio prolungato e lento del
fiume sulla materia, gemellandolo a quello della mano dell’artefice. In tutti
questi anni, Penone ha compiuto esperimenti e ricerche plastiche al limite di
alchimia e scientificità, tra antropologia e mitologia. Sovente i dati sono
bloccati nel bronzo e nel marmo attraverso gesti semplicissimi eseguiti a
diretto contatto con tronchi, foglie, fronde; calchi e impronte che conservano
quasi inalterate le informazioni originali. Così solo alla fine del processo,
il dato di partenza può rivelare altre immagini e racconti, altri significati,
altri scambi simbolici. Penone scrive a questo proposito: “Catturare il verde
del bosco. Percorrere con il gesto il verde del bosco. Strofinare il verde del
bosco. Immaginare lo spessore del verde del bosco. Lavorare con lo splendore, la
consistenza del verde del bosco. Consumare il verde del bosco contro il bosco.
Ripetere il bosco con i verdi del bosco”(1984). Un transitare dal linguaggio
dell’arte alla vitalità feconda del bosco e viceversa, in un contatto che è
come quello dell’edera col cipresso, o dell’acqua del fiume con la pietra
rotolata nell’alveo corrusco.
Fin da subito si avverte
in ogni azione transitiva (aderire, toccare, affondare, strofinare, scavare,
immergersi etc.) quella componente performativa necessaria all’avanguardia per
accorciare le distanze tra arte e vita, tra linguaggio artistico e spazio
fisico, tra mondi e tempi non più separati o separabili idealisticamente. Si
tratta di un doppio gesto cheattraverso un processo di immedesimazione a contatto con la natura (un
bosco, un mucchio di foglie, l’acqua che scorre, l’albero che cresce, le foglie
che cadono e si adagiano secondo l’ordine complesso dell’evento naturale sul
terreno, la luce e l’ossigeno che circolano nei corpi) ritorna poi a generare
figure, immagini, forme visibili e apprezzabili. Tutto questo accade perché le
opere di Penone si rovesciano sempre scambiando una forma con l’altra, l’origine
di una cosa con l’altra, verità e significati, esperienza e metodo tra natura e
corpo umano, tra segni vegetali e linguaggio artistico, in una ricerca costante
di realtà.
Uno dei suoi lavori più
celebri è Soffio, ispirato a un
disegno di Leonardo da Vinci. Già l’artefice rinascimentale aveva tentato di
dare forma al pneuma che riempie i polmoni di un uomo. Mettendo in evidenza la
massa d’aria, ma anche l’interno della bocca, dell’esofago, dei polmoni. Per
Penone si tratta anche di dar forma, attraverso l’impronta dell’aria emessa e
il calco dei muscoli interni, al soffio di vita che anima il corpo umano. Il
soffio, bloccato in espirazione prima che si dissolva nell’aria circostante,
crea una sorta di figura-diaframma: figura che solidificata in terracotta
restituisce alla vista una rappresentazione antropomorfa. Riconosciamo in esso
la massa eterea del respiro, quella sostanza invisibile che ci riempie i
polmoni ogni giorno della nostra esistenza permettendoci di crescere, di
camminare, di amare. Un soffio che anima il corpo e che dall’impronta e dal
calco ci è restituito nel materiale artistico quasi come pelle che avvolge e
protegge il nostro corpo. “La pelle, come l’occhio, è un elemento di confine, è
il punto estremo in grado di dividerci e di separarci da ciò che ci circonda… è
l’estrema parte del nostro essere, è l’elemento divisorio del nostro corpo, che
a sua volta protegge e contiene, in un certo senso, tutte le cose che ci
circondano” nelle parole dell’artista. Di questa adesione alla realtà, vero e
proprio contatto tra la pelle del mondo e quella dell’uomo, tra la terra e il
corpo, parla da sempre il lavoro di Penone.
Dai primi del Novecento
la scultura assume forme imprevedibili, si attua attraverso processi, strumenti,
gesti che non appartengono alla tradizione. L’artista esercita la sua autonomia
e superiorità sia sulla natura sia sulla riproducibilità tecnica inventando
forme non riconoscibili, fuori dell’uso comune, associando materiali e sagome eterogenee,
stravolgendo significati e contesti. Penone pur avendo sperimentato materiali e
sistemi lavorativi differenti, resta uno scultore antico che lavora togliendo
materia (sia nel marmo sia nel legno) oppure aggiungendola nelle opere in
bronzo o terracotta. Alberi scortecciati scavati e traforati, all’interno dei
quali ricompaiono alberi più giovani, alberi in bronzo che crescono in senso
contrario abbarbicando i rami a nuovi virgulti; e poi stanze di alloro e oro,
calchi di orecchi, di nasi, di labbra nascosti tra i tuberi, cumuli di foglie
su cui l’artista ha lasciato l’impronta del proprio corpo, tronchi di cristallo
sull’ingrandimento in gesso di un cranio, figure corporee nate toccando con
dolcezza zolle di terra, pavimenti di marmo tratteggiati come una corteccia,
blocchi giganteschi la cui superficie appare come un intricato nodo di vene e
radici.
Anche quando sembra
voler far rivivere il mito di Arcadia, le ninfe di un concerto campestre come
in Gesti vegetali, Penone non rappresenta la
natura, piuttosto ne fa parte ; egli intende ripetere il bosco intenzionato a
risalire alla zona di contatto sensibile tra soggetto e oggetto. Per far questo
è disposto a ribaltare se necessario la prospettiva d’indagine e il processo di
percezione-riproduzione artistica. Ad esempio rovesciando i propri occhi che diventano due specchi rivolti al mondo
esterno. Oppure agguantandoil fusto di un albero in crescita Continuerà
a crescere tranne che in quel punto. Infine rovesciando la pelle
del proprio volto e del proprio corpo per riprodurne l’impronta, la cui morfologia
in fin dei conti somiglia a quella della scorza di un tronco. Dunque non ci si
faccia ingannare dall’apparenza. Sebbene la natura sia il tema della sua
ricerca e delle sue rappresentazioni, quella che si ha davanti non è l’opera di
un artista figurativo tradizionale, di un artefice che vorrebbe mantenere una
relazione idealistica o nostalgica con la natura. Gli alberi di Penone sono
scolpiti per levare fino a trovare il virgulto fossilizzato all’interno del
tronco, evidenziando a questo modo l’armatura dei rami conservati nella polpa.
È un percorso a ritroso nella crescita del tronco, dall’età puerile dell’albero
al momento della sua esposizione.
Penone dichiara: “Per me,
a priori, non esiste il problema dell’arte. Esiste semplicemente il problema di
aderire alla realtà”. Penone opera con un linguaggio che nasce dall’adesione e
dal contatto con la realtà e di questa avvenuta adesione, la scultura o la
pittura, recano l’impronta, la traccia. Cercare e scavare – in termini quasi
archeologici e da geologo – per rimontare attraverso gli anelli del passato al
centro dell’albero, significa per Penone andare a ritrovare un preciso istante
dell’evoluzione dell’albero, lo stato di fatto di una cosa che è accaduta tempo
addietro e che ancora vive con l’albero. Un processo antiretorico e vitalistico
con cui Penone riporta alla luce l’infanzia dell’albero per mostrarla nella sua
integrità, anche quando si conserva fossilizzata nel tronco senescente.
In altre parole, si
tratta di entrare in contatto col processo evolutivo attraverso l’uso di
materiali naturali lavorati con un metodo d’arte adeguato alla nuova relazione
fenomenologica. Una relazione poetica che induce tuttavia a riattivare una
presa di coscienza gnoseologica della natura. Infine, la relazione
soggetto-oggetto, uomo-natura vive anche di momenti magici e alchemici,
intuitivi e poetici: “Animali, vegetali, minerali sono insorti nel mondo
dell’arte. L’artista si sente attratto dalle loro possibilità fisiche, chimiche
e biologiche, e riinizia a sentire il volgersi delle cose del mondo, non solo
come essere animato, ma come produttore di fatti magici
e meraviglianti”. Così scriveva Germano Celant nel 1969, e questa meraviglia,
questo stupore magico ritroviamo ancora oggi tra gli spalti di Forte di
Belvedere e i giardini di Pitti.
La logica della materia
Conversazione con Giuseppe Penone
Arabella Natalini – Giuseppe Penone
Arabella
Natalini Mi piacerebbe iniziare la nostra conversazione a
partire dal tuo rapporto profondo con i materiali, non seguendo quindi un
ordine cronologico, ma piuttosto una “logica della materia”, per utilizzare
un’espressione a cui tu stesso hai fatto
spesso riferimento. Negli anni hai sviluppato e arricchito il tuo lavoro
restando sempre radicato in un profondo interesse per l’arte e per la natura,
una precisa volontà di ricerca che ti ha portato spesso a sottolineare le
affinità tra i processi creativi e i processi di crescita naturale. Hai
perseguito questa ricerca tenacemente, con gli strumenti della scultura e con
un’attenzione profonda alla materia che hai impiegato di volta in volta. Le tue
prime opere erano realizzate nella natura, molto spesso nei boschi del tuo
paese, utilizzando quindi i materiali che questi luoghi ti mettevano a
disposizione. Erano forse gli strumenti più congeniali per dar forma ai tuoi
interrogativi sull’esistenza, sull’azione del tempo, sulla relazione fra
organico e inorganico, tra natura e arte e, in particolare, tra natura e
scultura. A distanza di anni, dove prendono forma oggi le tue idee?
Giuseppe Penone Le mie
idee nascono da una riflessione sulla scultura. Non è un lavoro che considera
la materia come un qualcosa di staccato e con cui bisogna relazionarsi. È una
riflessione sulla realtà delle cose. Si può interpretare la nostra vita come
un’azione di scultura continua: questo è il punto di partenza del lavoro che ho
iniziato nel 1968. In una mia prima opera ho cercato di evidenziare dei
propositi di scultura elementari, era l’impronta di una mano, che di solito può
essere registrata in un pugno di creta… Io l’ho realizzata utilizzando la
crescita del vegetale come materia plasmabile; in quel caso mi sono posto in
relazione con la natura, ma ho compiuto
questo tipo di azione anche con materiali diversi. Il rapporto con la natura,
verso la fine degli anni ’60, era in un certo senso abbastanza inconsueto per
quanto riguardava l’arte. Tutta l’arte del Novecento, infatti, è un’arte che si
è sviluppata nell’atelier, in un contesto urbano, in una dimensione
completamente cittadina. L’idea di riportare, di ripresentare e di reintrodurre
lo spazio aperto nasce in quegli anni, e successivamente ha avuto uno sviluppo.
Era una visione delle cose molto più aperta e meno vincolata all’idea di un
progresso dell’opera d’arte, presente in quegli anni, per cui da un’opera ne
nasce un’altra per affinità o per contrasto, che è un’idea veramente novecentesca,
un’idea delle avanguardie.
N. Sì
certo, le avanguardie storiche avevano estromesso quasi completamente la natura
dalla riflessione artistica a partire dagli anni ‘10 del secolo scorso. Il
recupero di questo rapporto ha aperto poi a una prassi di lavoro inedita,
rispondendo a nuove istanze che si sviluppano proprio negli anni a cui facevi
riferimento. Mi chiedevo se il tuo rapporto continuativo con gli elementi
naturali, oggi, a distanza di qualche decennio, risponde alle stesse necessità
di allora.
P. Oggi le
mie riflessioni nascono ancora dalla preoccupazione per la scultura… è questo
che dà una coerenza al lavoro. È questo legame che ho con la materia esterna,
con il paesaggio, con la natura di cui siamo parte; una divisione netta tra
umano e natura è una visione forzata della realtà, e io continuo a fare
scultura usando dei materiali, o cercando di mettermi in relazione con dei
materiali, che non sono più quelli dell’albero in crescita, ma sono comunque
materie che possono trovare collocazione nello spazio aperto, con la natura. Le
mie opere recenti hanno in qualche modo l’esperienza dei primi lavori e i
materiali che impiego, il bronzo, la pietra, l’acqua sono da sempre presenti
nella scultura.
N. Hai
nominato alcuni dei materiali che hai utilizzato negli ultimi anni, ma ce ne
sono molti altri. Oltre al legno, al bronzo, al marmo, anche il vetro, la
creta, la cera, la pelle, il cuoio, la grafite, il pane, la terra, l’aria,
l’acqua, il sole, le foglie, le spine… sono stati protagonisti di opere che ti hanno tenuto sempre a stretto
contatto con il fare, con il divenire, con lo scorrere del tempo, e con una
processualità interessata a ritrovare l’origine prima delle cose.
P. Questa è una cosa che mi piace sottolineare. Credo
infatti che il lavoro debba avere una necessità che non è vincolata alla forma
dell’opera. Una scultura che ha migliaia di anni è comprensibile e ci dà ancora
emozione, e probabilmente è la stessa emozione che provavano le persone
vedendola migliaia di anni fa. Questo non è invece possibile in altri settori
della cultura: per esempio, il pensiero scientifico annulla le comprensioni
della realtà precedenti. C’è una costante nell’arte che è la sua caratteristica
e il suo valore, un qualcosa che corrisponde alle necessità basilari della
nostra esistenza. E questa è una ragione per l’uso di questi materiali che
chiamiamo “naturali”. Un’altra ragione è la permanenza: se noi consideriamo che
un’opera occupa uno spazio fisico preciso, vuol dire che le persone per vederla
si devono dislocare, devono muoversi, andare in quel posto. Significa che c’è un numero
limitato di persone che può vedere l’opera. Per far sì che l’opera sia vista, c’è bisogno
che sia permanente nella sua forma e quindi deve esserci, a mio parere,
un’attenzione da parte di chi fa un’opera, alla qualità dei materiali e alla
loro durata. Queste sono le condizioni necessarie alla sopravvivenza
dell’opera. Se l’opera è effimera e la sua durata è limitata allo spettacolo,
all’installazione è destinata a perdersi; visivamente si può mantenere come
memoria fotografica o filmica, ma non è la presenza dell’opera stessa.
N.La
questione che hai sollevato, il desiderio di offrire alle persone un’esperienza
diretta dell’opera, costituisce un’esigenza diffusa tra la fine degli anni ’60
e i primi anni ’70. Basti pensare alla Land Art, alla volontà
degli artisti di portare le persone a contatto diretto con l’opera nel suo
contesto naturale, sebbene poi la maggior parte di questi lavori sono ricordati
soprattutto grazie alla fotografia, proprio perché le possibilità di esperienza
diretta erano limitate. Ma vorrei soffermarmi ancora sui materiali perché mi
sembra che i tuoi alberi in legno siano esemplari sotto diversi punti di vista.
Come hai detto altrove, gli alberi per te sono più di un tema, sono “la materia
stessa” del tuo lavoro. Una materia con cui hai intessuto un rapporto profondo
e duraturo, una materia con cui ti confronti assiduamente attraverso un lavoro
che, pur nella sua assoluta originalità, riprende una maniera antica, un fare
scultoreo “per via di levare”, dove a partire da delle travi, cioè da elementi
geometrici, da un materiale già lavorato dall’uomo, rintracci la forma
originale dell’albero seguendo gli anelli di crescita del fusto con un processo
inverso. Ci puoi spiegare meglio come riesci a portare alla luce la
conformazione originaria dell’albero e anche, e sopratutto, cosa sono gli
alberi per te?
P. Gli
alberi per me sono un’idea di scultura perfetta, se si pensa che l’albero è un
essere vivente che fossilizza il suo vissuto nella sua forma, e che ogni parte,
ogni singola foglia, ogni singolo ramo è presente per una necessità legata alla
sua sopravvivenza, alla sua vita; non c’è nulla di casuale nell’albero, nulla
in eccesso o in difetto, la sua forma è esattamente quello che gli serve per
vivere e per la sua strategia di sopravvivenza. Possiamo chiamare azione il
crescere di una foglia, di un germoglio, di un ramo; tutte queste azioni sono
registrate nella sua struttura, quindi il ritrovare la forma dell’albero
all’interno del legno, della materia legno, è, secondo me, una tautologia della
scultura perfetta. Nel mio lavoro ho usato quasi sempre dei materiali che sono
tradizionali della scultura, ed è il motivo che la rende atemporale, non legata
a un momento storico preciso: il bronzo è un materiale che si usa da millenni,
così la creta, così il carbone, la grafite. Sono tutti materiali che attraverso
la materia dell’opera non identificano l’epoca in cui è stata eseguita.
N. I tuoi Alberi
sono quindi sculture tautologiche, nella loro essenza e nella loro
denominazione. Fa però eccezione la prima, del 1969, con un titolo molto
evocativo e suggestivo, “Il suo essere nel ventiduesimo anno di età in un’ora fantastica”,
che metteva in relazione il tuo tempo personale, la tua età, con il tempo
dell’albero. Già un anno prima, a proposito di un altro lavoro sempre legato al
bosco e agli alberi, Alpi Marittime. Continuerà a crescere
tranne in quel punto scrivevi: “L’albero, perso e consumato ogni
significato emozionale, formale e culturale, appare un elemento vitale in
espansione, in proliferazione e accrescimento continuo. Alla sua ‘forza’ ha
aderito un’altra ‘forza’, la mia”. Ecco, mi chiedo se oggi consideri ancora il
tuo lavoro un’ “adesione”, un’unione delle forze, come scrivevi nel 1968, o se
è diventato piuttosto un’ulteriore occasione di confronto tra natura e cultura,
nello specifico tra natura e scultura.
P.L’adesione del mio corpo con un altro elemento è un’idea di scultura. Ho fatto
delle opere che nascevano dall’idea del respiro: respirando si introduce nel
nostro corpo una quantità d’aria che quando fuoriesce, ha delle caratteristiche
fisiche e chimiche diverse dall’aria che la circonda. Questo volume che si
immette nello spazio circostante è una scultura, è un principio di scultura.
Nella tecnica della scultura ci può essere una forma fatta di gesso nella quale
si versa gesso; si rompe poi la forma per ottenere il gesso che si è versato
successivamente. Quest’idea di un volume all’interno di un altro volume, nel
caso specifico dell’aria, è qualcosa che fa parte del processo della scultura
tradizionale e che mi ha spinto a fare opere come Respirare
l’ombra, oppure i Soffi del ’78. Sono opere
che riguardano il processo della vita letto attraverso la riflessione sulla
scultura, e sotto questo punto di vista si possono relazionare anche tante
altre opere che riguardano il contatto. Nell’opera Continuerà
a crescere tranne in quel punto, ho sostituito la pressione della
mia mano con la mano di ferro per far sì che l’albero crescendo imprimesse
nella sua struttura il contatto e lo ricordasse; è stato uno dei lavori più
importanti, un’intuizione che mi ha portato alle opere nelle quali io scavo e
ritrovo la forma dell’albero all’interno del legno. In questo caso ho seguito
un percorso di pensiero inverso. Mi son detto: “se in un futuro la mano di
ferro scomparirà all’interno della massa del legno, probabilmente scavandola
potrò trovare il momento in cui l’ho posata”. Poiché l’albero cresce per cerchi
concentrici c’è la visibilità del suo tempo, del tempo della sua esistenza. È
questo che mi ha spinto a trovare la forma dell’albero all’interno della trave,
a capire che era possibile farlo. Il processo di questa azione avviene
osservando la forma della trave.
N.Come avviene la scelta della
trave su cui vuoi lavorare?
P. Se
parto da un pezzo di legno che è una trave, cerco di trovarne una che contenga
nella sua massa il centro dell’albero, considero poi il numero di anelli di
crescita e il numero dei rami. Uso di solito delle conifere, perché hanno una
crescita a palchi molto lineare e gli anelli di crescita si possono individuare
e seguire facilmente.
N. Credo
che la tua attenzione alla qualità dei materiali sia una costante che emerge
anche in altre occasioni, per esempio quando ti confronti con il bronzo.
Tornando all’opera precedentemente menzionata, Continuerà
a crescere tranne in
quel punto, se non sbaglio la mano che avevi poi inserito nel
tronco era in acciaio, forse perché all’epoca il bronzo ti sembrava troppo
classico, istituzionale; ma a breve, più o meno intorno alla seconda metà degli
anni ’70, hai iniziato a usarlo sempre più spesso, penso a opere meravigliose
come Zucche
o Patate.
Successivamente, dall’inizio degli anni ’80, il bronzo è diventato uno dei tuoi
materiali prediletti. Come è avvenuta questa tua “conversione”, anche un po’
controcorrente rispetto a quello che altri tuoi colleghi facevano in quegli
stessi anni?
P. All’inizio
del mio lavoro, alla fine degli anni ’60, avevo già usato dei materiali stabili
come l’acciaio inox e anche il bronzo. Ad esempio, la mano che avevo posto
all’albero l’avevo fatta in due versioni, una con l’acciaio e l’altra col
bronzo. Poi ho mostrato soprattutto l’esemplare dell’acciaio perché mi sembrava
più forte come idea di materia. Il bronzo è più dolce, è una materia fragile
sotto un certo punto di vista. L’acciaio ha una forza e una contemporaneità che
è diversa. L’interesse per questi tipi di materiali comunque è nato da un
insieme di cose: da una parte l’idea di avere un materiale che fosse stabile
nel tempo, dall’altra una comprensione del processo. Nella scultura ci sono
tanti aspetti che sono interessanti e che emergono attraverso il processo.
L’opera è il risultato di questi processi, che a volte sono interessanti quanto
l’opera stessa.
N. Hai
sottolineato spesso come il processo di fusione ricordi da vicino, con i suoi
rami e le le sue cannule, proprio le forme arboree, e anche come la patina del
bronzo possa acquistare una colorazione molto simile a quella della
vegetazione. Mi chiedevo se sono queste analogie che ti hanno convinto a
impiegarlo sempre più spesso o se è stato piuttosto il desiderio di cimentarti
con materiali più “intrinsecamente tradizionali”…
P.Ho
fatto altri lavori sul processo, come Essere Fiume è un’opera
dove ho preso un sasso nel torrente, ho risalito fin dove c’era una cava della
stessa qualità di pietra, e su un blocco di quella pietra ho ripetuto l’azione
del fiume, riproducendo esattamente la pietra del fiume; questo è nato dalla
considerazione che l’azione della scultura sulla pietra è qualcosa di analogo
al lavoro del fiume. Queste riflessioni nascono solo se si lavora personalmente
il materiale, non si può capire una tecnica se si fa eseguire il lavoro da
altri. C’è una pratica che è necessaria, e attraverso la pratica si capisce la
logica che soggiace alla tecnica e anche il modo di usare la materia e di
rivelarne gli aspetti più interessanti. È la stessa logica che c’era nei lavori
sulla crescita del vegetale, dove ho cercato di capire il tipo di vita che si
sviluppava in un vegetale relazionato all’idea della scultura e della sua
forma. Per esempio in Patate, che hai ricordato,
ho posto nel terreno dei calchi in negativo del mio volto a fianco di tuberi in
crescita, e alcuni tuberi si sono sviluppati prendendo delle forme
antropomorfiche; la mia era solo un’indicazione perché il tubero e le patate
hanno spesso delle forme che sono buffe, strane: vediamo la forma del nostro corpo
nelle cose, e il pensiero che la forma del nostro corpo sia all’interno del
terreno è fantastico. Collega la nostra esistenza all’idea del sommerso,
all’idea di una vita segreta. Ciò che per me era importante era fare un’opera
senza toccarla, senza vederla, che cresceva di per sé.
N. Parlavi
della possibile comprensione della logica del materiale attraverso il lavoro e
il processo, ma anche della vita del vegetale in relazione alla scultura. Nei Gesti
vegetali, così come nei Sentieri, metti in campo
una simbiosi tra regni diversi: ci sono delle figure antropomorfiche in bronzo,
dall’apparenza leggera, che sembrano fatte di corteccia, che s’intrecciano e si
fondono con alberi vivi, ancora in crescita. Una sorta di innesto che determina
la forma d’insieme dell’opera. A proposito di innesti, anche in questo caso ci
sono dei precedenti che risalgono alla fine degli anni ‘60. Nel 1969 hai
realizzato Zona
d’ombra, un lavoro dove collocavi direttamente delle pietre sulle
biforcazioni di un albero in crescita, nel bosco. In quel caso l’intervento si
limitava a una dislocazione di elementi, a un gesto, a un’idea che si sarebbe
sviluppata anche a prescindere dal tuo controllo. Questo rapporto dialettico
tra controllo e non-controllo, tra l’intenzione dell’artista e i possibili
sviluppi imprevedibili che la trasformazione dell’opera e della materia possono
apportare, è un aspetto molto significativo. Fino a che punto l’imprevisto può
insinuarsi nei tuoi lavori più recenti? Parliamo appunto ancora delle opere in bronzo
dove, ovviamente, c’è un altro tipo di lavorazione e di controllo del materiale
rispetto all’albero vivo.
P. L’imprevisto
nell’opera dipende dalla casualità, che poi è presente in ogni aspetto della
nostra vita. L’imprevisto ci coglie di sorpresa e può essere un valore per
l’opera; occorre però che chi ha fatto l’opera riesca a capirlo, a integrarlo. Quando
si fa un lavoro lo si fa con delle intenzioni, possono essere delle intenzioni
molto serie, molto intelligenti e si può ottenere un risultato scadente, oppure
possono essere delle intenzioni molto semplici e si può avere un risultato
stupefacente. La capacità e l’interesse dell’opera, e soprattutto dell’artista,
è quello di riuscire ad appropriarsi dell’imprevisto e farlo diventare un
elemento costruttivo all’interno della produzione del suo lavoro. Non si riesce
mai a capire a pieno quello che si sta facendo, c’è poi il bisogno di un
momento di riflessione. Questo momento una volta avveniva nello studio
dell’artista, perché l’opera si decantava in studio. Questo si è perso negli
ultimi anni per la rapidità che il sistema dell’arte oggi richiede e a volte
l’artista non ha il tempo di appropriarsi di quello che ha fatto.
N.Il
bisogno di tornare sui lavori, di lasciarli depositare in modo che le idee
maturino e si sviluppino ulteriormente, può presentarsi talvolta a distanza di
molti anni. Mi sembra per esempio che la memoria dell’esperienza dell’opera
realizzata nel bosco Pietra e alberi sia
riaffiorata a distanza di qualche decennio nelle Idee
di pietra, dove però le cose cambiano, perché i sassi sono
sorretti da rami in bronzo. Possono essere letti come un ribaltamento, come una
sfida alla gravità, o piuttosto come dei meteoriti caduti dall’alto, oppure
come dei frutti dell’albero, dei frutti del pensiero. Ci puoi dire qualcosa di
questi innesti ricorrenti che tu proponi in opere anche formalmente diverse tra
loro, ma realizzando spesso un’unione, un congiungimento, un innesto, appunto,
tra materiali diversi?
P.Il
rapporto tra i diversi materiali di un’opera deve nascere da una necessità e da
una logica della forma, altrimenti è un accostamento solo formale che rischia
di diventare vago, di non essere interessante. Ho fatto degli alberi in bronzo
che sorreggono delle pietre, che pongono in relazione la pietra e il bronzo.
Avevo fatto già dei lavori simili negli anni ’60: avevo messo delle pietre a
fianco degli alberi, le avevo inserite nelle biforcazioni, erano delle idee che
poi hanno avuto un’evoluzione. Nel tempo è difficile per una persona stabilire
la priorità delle cose. Il tempo vissuto, magari un tempo lontano, è presente
più di qualcosa vissuto due ore prima, credo che sia tutto un insieme; è
difficile creare la memoria della propria vita, non è una cosa così
cronologicamente suddivisa. Nel caso di questi bronzi con le pietre di cui
parlavamo, l’intenzione era quella di sottolineare la forza di attrazione della
luce contrapposta alla forza gravitazionale. L’idea che un albero cresce e
sfugge alla forza di gravità sorreggendo un peso enorme, che è quello dei rami,
la sua stessa struttura, ma anche il peso del vento, il peso delle foglie, il
peso della neve, è sorprendente. Io non ho fatto nient’altro che porre
delle pietre, sottolineando questo. D’altra parte tutto il problema della
scultura è basato sulla verticalità e l’orizzontalità.
Un elemento che sfugge alla forza di gravità, che si erge, è già un gesto di
scultura; si può pensare a delle manifestazioni espressive della preistoria, la
vitalità di un obelisco è di per sé legata a questo, al fatto che sfugge alla
forza di gravità e questa contrapposizione tra forza di gravità e verticalità è
fondamentale nella scultura; ma non solo, è un’idea di vitalità che è presente
poi in tutte le opere d’arte. Le opere d’arte devono avere vitalità, questo è
quello che normalmente ci attrae nell’opera.
N. Parlavi di
verticalità, orizzontalità e anche dell’importanza fondamentale della vitalità
nella scultura. Pensando ancora a un’opera come La logica del vegetale, che
si sviluppa in orizzontale con l’imponente tronco coricato a terra, se ne
percepisce immediatamente non solo la forza, ma anche un aspetto non
immediatamente spiegabile, legato a una particolare bellezza. “Bellezza” è una
parola che molti artisti contemporanei rifiutano. Mi sembra però che nel tuo
lavoro l’idea di bellezza non sia irrilevante e si offra invece all’interno di
un recupero della sensibilità in senso ampio, dove il pensiero è strettamente
intrecciato alla materia. Cosa ne pensi?
P. Nell’opera La logica del vegetale ci
sono questi due elementi, l’orizzontalità e la verticalità, un albero caduto è
un albero che è destinato alla morte, ma, come spesso avviene, da un albero
caduto nel punto dove il ramo tocca il terreno si sviluppano nuove radici, si
sviluppa la vita. C’è un risorgere da
una condizione di orizzontalità a una condizione di verticalità, questo è il
senso dell’opera. Inoltre c’è una logica nella distanza tra un ramo e l’altro
all’interno della struttura di un albero che sviluppa i suoi rami alla ricerca
della luce. Quindi si crea una suddivisione dello spazio che è basato sulla
“logica del vegetale”, questo è il motivo del titolo. Se si cerca la logica che
determina la forma si arriva ad affrontare inevitabilmente l’aspetto estetico.
Siamo a Firenze, e viene in mente il lavoro del Brunelleschi e le sue
invenzioni straordinarie, nel senso di rinvenire, cercando e seguendo la logica
della materia ed esaltando ciò che la materia stessa racchiude e può dare con
la sua forma. Io credo che questo sia presente in tutta l’arte che ci indica
degli aspetti della realtà che vengono rivelati attraverso l’opera. Questo
concetto, io l’ho espresso con le Anatomie,
i blocchi di marmo che ho scolpito seguendo ed esaltando l’intrico delle vene.
La vena del marmo che è la sezione di una sedimentazione, nel nostro
immaginario, è corpo, è sistema arterioso e io rivelo questo aspetto. Secondo
me la bellezza sta nella logica della forma; se la forma di un’opera viene
eseguita seguendo la logica della materia, si ottiene un risultato che è esteticamente
interessante, se la si violenta si ha una dissonanza.
N.La stessa logica ti
ha portato a evidenziare profonde analogie tra materiali diversi facendo
emergere anche una sorta di “anatomia
comparativa”. Hai parlato appunto di venature, sezioni di sedimentazioni del
marmo che rimandano e ricordano il sistema circolatorio umano, la crescita
vegetale, in particolar modo delle radici, e anche lo scorrere dell’acqua…
Questa fluidità, che tu rintracci in elementi che ne sono esplicitamente
contraddistinti, come l’acqua, ma anche nel marmo, nel legno, nel bronzo, oltre
l’accomunare il mondo minerale, naturale e umano, può essere anche una
caratteristica che lega o che scorre tra le tue opere?
P. La fluidità è una condizione della materia e dipende dal tempo.
Un materiale che è apparentemente solido nel tempo può diventare fluido.
Tornando all’albero, lo consideriamo un elemento statico perché abbiamo un
respiro diverso, un tempo di vita diverso dal suo, ma l’albero è un materiale
che è plasmabile e che ha una sua fluidità. La stessa cosa si può dire per lo
sgretolarsi di un monte, che diventa roccia, diventa ciottolo, diventa sabbia,
e raggiunge la fluidità che è presente nella realtà che viviamo ogni giorno.
“Fluidità” contrasta con “scultura” perché si pensa la scultura come qualcosa che è
statico, permanente, mentre la realtà ci dice che, purtroppo, e forse anche per
fortuna, la permanenza non è la cosa prioritaria nel mondo. Un bronzo che si
patina, che si sgretola pian piano nel tempo, ritorna a far parte di un
processo vitale, come anche un blocco di marmo che, nel momento in cui è
staccato dal monte, muore, sotto un certo punto di vista, perché non partecipa
più all’evoluzione, ai cambiamenti dei processi geologici della montagna e quindi alla sua
maturazione o trasformazione. Una volta cavato inizia il suo sgretolarsi, la
sua morte, sia quando questa erosione viene causata dal tempo, sia quando è il
risultato di un’azione dell’uomo. I diversi materiali sono accomunati da
quest’idea di fluidità che è presente nella realtà e che sotto un certo punto
di vista contraddice l’idea di permanenza della scultura.
N.Anche i tuoi disegni
e i tuoi splendidi testi sono caratterizzati da un andamento fluido, fanno
pensare a un fluire, a un intreccio di rimandi continui tra forme e pensieri
che concorrono al processo conoscitivo, una forma di conoscenza improntata
all’analogia.
Che relazione si instaura tra la tua scrittura, il disegno e la scultura?
P. Il disegno e la scrittura sono per me importanti per la comprensione
dell’opera. Non è obbligatorio eseguire un disegno per fare una scultura, la
scultura può avere una sua evidenza di forma per cui il disegno risulta
inutile, oppure diventa solo un modo per annotare la forma che si vuole
eseguire. Per esempio, negli alberi in bronzo fare un disegno esatto dell’opera
sarebbe forse inutile, invece l’annotazione è importante perché .permette di
sviluppare l’opera o di eseguirla in un modo più logico, più conseguente. La
scrittura, per me, può nascere prima dell’opera, ma può anche seguirla. Se la
precede aiuta a mettere a fuoco le intuizioni e a trovare la forma che queste
intuizioni avranno poi nell’opera; se la segue può essere un tentativo di
comprensione dell’opera e anche di estensione dei suoi significati. Sono due
pratiche che comunque sono sempre legate
al problema fondamentale della mia attività che è la scultura; separarli da
quello non avrebbe senso. Ci sono opere che io considero scultura, anche se
hanno l’aspetto del disegno. Un lavoro come questo, alle mie spalle [Spine
d’acacia-bocca], è scultura, perché è legato al tatto,
all’immagine involontaria, o volontaria lasciata dal contatto della pelle con
la superficie che poi viene ingrandita. In questo caso le spine di acacia
sottolineano i punti di contatto della pelle, i punti di sensibilità e di
comprensione della superficie toccata che avviene attraverso la lettura
tattile, attraverso i terminali nervosi della pelle.
N.Più volte hai
affermato che l’opera non può essere solo concetto e che il tuo lavoro “si
nutre di pragma, aderenza alla materia e al lavoro stesso”. Il risultato di
questa aderenza sono lavori che sembrano fatti per essere esperiti da tutti i
sensi: la vista ma anche il tatto e, talvolta, l’olfatto; opere dove
l’interazione con il visitatore contribuisce profondamente alla loro
“rivelazione”, soprattutto quando collocate in spazi aperti. Spesso però, come
nel nostro caso, per ragioni di sicurezza è vietato toccare, o addirittura
avvicinarsi troppo. Credi che questi divieti impediscano, o quantomeno
limitino, l’esperienza dell’opera stessa?
P. L’opera che viene esposta all’esterno entra in contatto
con un pubblico che è presente nel luogo non solo per vedere l’opera, creando
un rapporto particolare. C’è un pubblico che può rispettare o intuire
immediatamente quali sono i suoi valori e un pubblico che invece non li
percepisce. In questi casi, a volte, per dei problemi pratici è necessario
creare una barriera fra l’opera e il pubblico per evitare che l’opera venga
danneggiata, ma anche per sottolineare che si deve porre una particolare
attenzione a quell’oggetto. Quindi l’aspetto della barriera è doppio, può
essere visto in senso negativo perché non permette un contatto diretto con
l’opera, ma può anche essere visto in un senso positivo perché sottolinea il
valore dell’opera ed è comunque una convenzione. A Kanazawa, in Giappone, c’è
un grande giardino con degli alberi che sono deformati nella loro crescita e
per mantenerne la forma vengono usati dei grandi pali di legno che sostengono i
rami che si sviluppano per decine di metri in modo orizzontale. Riflettendo con
un giapponese sulla bellezza della forma del vegetale ho detto “peccato che ci
siano degli elementi di sostegno”, e lui mi ha risposto “ma tu non devi
guardarli, tu devi guardare la forma dell’albero, questo è l’interesse”. È
anche vero che nel momento in cui si accetta la convenzione di questi elementi,
questi elementi spariscono, non sono più visibili. Io che guardavo quegli
alberi per la prima volta, davo lo stesso valore all’elemento di sostegno e
all’opera (in effetti sono opere, sono vegetali deformati), e invece per chi
aveva l’abitudine di vedere, come lui, era irrilevante, come è irrilevante
l’idea della cornice o del vetro che protegge i disegni.
N. A
proposito della convenzione, del limite, della funzione che può avere la
cornice, come il piedistallo, nel delimitare, e talvolta rafforzare l’opera, mi
viene in mente il tuo Parco delle sculture fluide
a Venaria, dove le opere sono collocate in precise porzioni di terreno, quasi
dei “fogli di terra” che le inquadrano e le delimitano nettamente. In un altro
contesto, come quello del giardino di Boboli, sei intervenuto in modo diverso:
ci sono opere come Biforcazione o Sentiero,
che non si distinguono immediatamente dal resto della vegetazione, si pongono
in relazione quasi mimetica con l’ambiente; nell’avvicinarsi però si genera una
condizione di meraviglia, di stupore, di scoperta di elementi e di dettagli che
non si vedevano di primo acchito: lo stupore e la capacità di sollevare alcuni
interrogativi sono ancora una prerogativa dell’arte?
P. Lo stupore è una condizione fondamentale
nell’espressione. Lo stupore, l’inatteso, il mistero, suscitano in noi
l’interesse e il desiderio di capire. Lo stupore di un bambino è verso tutto quello
che lo circonda, l’adulto prova meno stupore rispetto alla realtà che vive ogni
giorno, e questo stupore però si rivela di nuovo e appare, per esempio, durante
un viaggio. Quando ci spostiamo in un contesto che non è il nostro cominciamo a
rivalutare, a riconsiderare tantissimi aspetti della realtà che ci circonda; e
questo è l’interesse del viaggio, il grande successo della necessità del
viaggio. Lo stupore che è legato all’opera è l’inatteso, l’aspetto non visibile
e rivelato della realtà che ci circonda, e questa è un po’ la funzione
dell’opera, che si tratti di un’opera di scrittura, di pittura, di scultura o
di musica. Lo stupore è anche una fonte di memorizzazione, ci si ricorda molto
bene delle cose che ci stupiscono. E’ un meccanismo che serve a memorizzare
l’opera. Può nascere anche soltanto dal contrasto tra i materiali, come nel
caso dell’albero in bronzo di Biforcazione, installato a
Boboli, in un contesto che sembra di casualità naturale; un primo stupore, in
questo caso, nasce da una forma di contrasto, perché si pensa a un materiale
ligneo e poi si scopre che è bronzo. La meraviglia secondo me è fondamentale
per la costruzione del linguaggio dell’arte, del linguaggio visivo ma non solo;
aiuta a memorizzarne il ricordo.
N.Hai lavorato in
contesti molto diversi, grandi musei, parchi storici, un ex passante
ferroviario (solo per fare qualche esempio) ma quello che mi sembra
particolarmente significativo è che hai sempre risolto magistralmente i
problemi di relazione spaziale. Le tue non risultano mai “intrusioni”, ti
“innesti nella natura del luogo” con forme, materiali e proporzioni che si
esprimono pienamente in relazione all’ambiente, come se le tue opere fossero
nate lì. Come sviluppi il tuo dialogo col contesto?
P. L’opera, quando viene installata in uno “spazio aperto”,
si apre a molteplici letture e sfugge ad un’analisi specialistica dell’opera
stessa. Se si va in un museo c’è una cronologia all’interno della presentazione
delle opere per cui diventa facile capirne la derivazione o capirne i valori
che sono permanenti e si susseguono. Nello spazio aperto questo è più
difficile, perché c’è una contemporaneità dello sguardo, su momenti e
situazioni diverse. Lo sguardo di un vecchio sarà uno sguardo che ha una
memoria del luogo, e quindi vedrà l’opera come un corpo estraneo,
un’intrusione; lo sguardo di un bambino sarà uno sguardo di contemporaneità
sulle diverse cose, quindi occorre una cultura specifica per riuscire a
distinguere e per avere una lettura della realtà di quel luogo e dei manufatti
che sono presenti. Quando si installa un’opera all’aperto entra inevitabilmente
in rapporto e in dialogo con le cose che stanno attorno, e da questo dialogo
l’opera si può avvantaggiare o può perdere di interesse. Ma credo che se
l’opera è fatta seguendo, come dicevo, la logica del suo materiale e l’intento
è quello della comprensione della materia, si integra inevitabilmente e non
diventa un corpo totalmente estraneo, ma qualcosa che talvolta sottolinea degli
aspetti già presenti nel luogo.
N.Torniamo
alla mostra che hai realizzato a Firenze, e partiamo dal suo titolo, Prospettiva
vegetale, per rintracciare insieme le linee guida che hanno
portato all’ideazione di un percorso che apre a molteplici prospettive in una
città che è stata la culla di un sistema di rappresentazione che ha
contraddistinto a lungo la cultura occidentale. Sei intervenuto in due contesti
straordinari, distinti ma contigui: il giardino di Boboli e le terrazze di
Forte di Belvedere.
P. Il
percorso delle opere che espongo a Firenze nasce dalla considerazione dei
luoghi: non si può entrare in un luogo senza cercare di capirne la natura, lo
spazio e le intenzioni che lo hanno creato. Ora Boboli è un luogo che ha una
memoria unica, un luogo che è nato da una cultura e da una comprensione del
mondo straordinaria e che ha determinato la cultura mondiale. È un modello di
giardino molto ricco perché ci parla delle divinità pagane, ci parla di aspetti
esoterici, alchemici. Ha una complessità straordinaria, e questa sua
complessità la si scopre considerandone la realtà segreta, meno evidente,
oppure attraverso la sua platealità, come l’idea di questo anfiteatro con la
prospettiva che non è orizzontale ma verticale, che porta lo sguardo verso
l’alto; questo è abbastanza straordinario; è un valore simbolico, quello di
volgere lo sguardo verso il cielo. Ho posto in quel luogo un albero verticale
che sostiene una sfera di foglie, la forma delle foglie che l’albero espone al
sole… La sfericità è essenziale per la vita dell’albero e la sfericità del
granito, che è al di sopra trattenuto dai rami, suggerisce l’idea del peso e
della forza di gravità. Questi due elementi credo che trovino una
corrispondenza con il luogo e gli elementi simbolici che sono presenti, anche
se la mia intenzione non è puramente simbolica. Questa è un’opera che dialoga
con un concetto di giardino, con un concetto di esposizione, di memoria, di
elementi vegetali e minerali organizzati, questa è la funzione di quel
giardino; c’è la memoria di tante idee e tante forme di pensiero che
appartengono alla storia dell’uomo, non soltanto al Quattrocento. La
collocazione di quell’opera centrale, che si intromette all’interno di questa
prospettiva, ha significato per questo.
N.Attraverso il posizionamento delle diverse opere hai indicato e sottolineato
alcuni scorci sulla città, ma hai anche creato delle relazioni, dei passaggi e
dei collegamenti interni. Come ti sei relazionato con la vegetazione,
l’architettura e la morfologia di questi due luoghi storici? Come dialogano i
tuoi materiali con il tessuto e il profilo della città?
P.Il
marmo di Anatomia
e Pelle
di marmo, per esempio, dietro il quale si vede poi la cupola del
Brunelleschi, si pone in relazione con degli elementi che sono della città, e
le nervature della cupola del Brunelleschi dialogano, in un certo senso, con le
venature del marmo. È una macchia, minerale, bianca, che si esalta a contatto
con l’insieme del giardino, che invece
è scuro, verde, e con il terreno e i suoi elementi. Un’altra opera, La
logica del vegetale, è molto mimetica perché rappresenta con il
bronzo la materia vegetale in modo perfetto, questo perché il bronzo quando si
ossida acquista i colori dell’ambiente, della natura nella quale è posto. Biforcazione
può sembrare a prima vista un ramo caduto dal grande cedro che è gli è vicino,
e poi c’è Sentiero
che fa parte del gruppo di opere Gesti vegetali. È una forma
antropomorfica, è un vuoto che viene riempito dal vegetale. Quest’opera è
conseguente ai primi lavori che ho fatto, al processo di ritrovare la forma
dell’albero all’interno del legno; in quel caso io, animale, svolgevo un’azione
per trovare la forma vegetale, all’interno della massa del legno. Nel caso del Gesto
vegetale l’azione dell’uomo è fossilizzata, è statica, diventa
invece dinamica la crescita del vegetale che dà vita alla forma in bronzo che
si riempirà di foglie e sarà vitalizzata dalla vegetazione.
N. A Forte
di Belvedere presenti una serie di opere monumentali, instaurando una relazione
spaziale forte con l’architettura della palazzina, dei bastioni e della città
sottostante. L’attenzione all’uso dei materiali, al rapporto che si instaura
tra le diverse opere, tra l’orizzontalità dello sguardo e la verticalità della
crescita (in questo caso preponderante), restano costanti, ma l’effetto di
insieme è piuttosto dissimile da quello del giardino di Boboli. Ci puoi dire
quali sono state le riflessioni da cui sei partito?
P. Rispetto
a Boboli il Forte ha un carattere diverso, i suoi bastioni ostentano ed
esaltano la sua posizione dominante sulla città, non è come Boboli un luogo di
raccoglimento, è uno spazio che ha l’arroganza della sua visibilità. Questi due
caratteri del percorso permettono una diversa possibilità di esposizione e di
scelta delle opere. I cinque alberi di bronzo che si ergono sui terrazzamenti
del Forte sono opere nate da una riflessione sulla tensione esistente tra la
forza di attrazione della luce e la forza di gravità, ma in questo luogo
assumono un senso di drammaticità che è provocato dalla violenza che la struttura
militare racchiude. L’ Albero folgorato ne è
l’esempio più forte, ma anche gli alberi che sorreggono le pietre possono
suggerire una testimonianza di presunte azioni violente. Si contrappone a
queste opere Spazio di luce che, con la sua orizzontalità,
suggerisce l’osservazione, il progredire dello sguardo nello spazio che
sovrasta la città, una progressione orizzontale che si contrappone alla
crescita verticale dell’albero.
N.In
tutti questi lavori instauri sempre un forte rapporto con il contesto. A partire
da questo, tra le domande più frequenti del pubblico c’è quella relativa
all’origine dell’opera, nel senso del suo essere, o meno, site-specific. Preme
sapere se è stata concepita appositamente per quel determinato luogo, come se
questo ne determinasse il valore. Che ne pensi?
P.L’opera Luce
e ombra è un’opera che è nata da una riflessione precedente alla
mostra, un’opera che tra l’altro ha avuto un tempo di fabbricazione
lunghissimo. Boboli comunque è un luogo particolarmente significativo per quest’opera
che acquista dei valori che probabilmente non avrebbe in un contesto diverso, è
quasi come se fosse stata fatta per quel preciso luogo, per questa ragione
appare così specifica. Ma questo avviene per qualsiasi oggetto; quando
l’oggetto entra in uno spazio dialoga con gli elementi dello spazio, si può
arricchire di valori oppure perderli e può acquisire significati diversi. Non
tutte le opere possono andare bene in qualsiasi spazio, io scelgo normalmente
le opere che penso funzionino meglio nello spazio in cui le devo allestire, non
posso mettere un’opera qualsiasi in qualsiasi spazio, cerco di valutare
l’intenzione, la forma per trovare le relazioni possibili con il luogo. Questo
provoca l’impressione che l’opera sia stata fatta per oppure abbia una motivazione
forte in quel luogo, e quindi si crea una sensazione di permanenza, come se
l’opera dovesse rimanere e si evita il senso di intrusione, di contrasto; per
me questo è importante.
N.Il rapporto col nostro tempo, il suo intrecciarsi col
passato e con la storia, rappresenta un elemento identificativo del nostro
essere. A partire dalla fine degli anni ‘50, in gran parte d’Europa, e in
Italia in particolare, ha iniziato a circolare un forte desiderio di
emancipazione dal passato. Ritieni che la posizione dell’artista riguardo alla
storia, e alla storia dell’arte in particolare, sia oggi cambiata? Credi che la
nostra tradizione artistica possa inibire il nostro sguardo sul presente e sul
futuro?
P.Una delle funzioni dell’arte è quella di ridefinire i
rapporti con la realtà modificando gli schemi e le convenzioni esistenti. La
necessità di emancipazione dal passato che c’è stata dopo la seconda guerra
mondiale era dettata dalla necessità di ridefinire la comprensione della nuova
realtà che si era imposta. Questo non vuol dire perdere la propria identità, ma
piuttosto cercare di trovare nella propria cultura e storia le idee e le
energie necessarie al mutamento. Lo spirito di ricerca ed innovazione di quegli
anni aveva questa esigenza. Oggi è diverso, il grande cambiamento culturale,
politico, economico, nato da quell’evento c’è stato. Le mutazioni sono continue
ma i valori fondamentali della nostra cultura sono presenti e parte attiva dei
mutamenti del mondo. Occorre identificarsi nei valori germinali della nostra
cultura e non pensare ai risultati formali con cui si è espressa nel passato.
N.Se invece guardiamo in
avanti, mi piacerebbe conoscere il tuo parere sulle caratteristiche che
dovrebbero avere gli “artisti del futuro”, magari partendo da quelle che
ritieni fondanti per gli artisti del secolo scorso…
P. Il valore e l’interesse del linguaggio dell’arte visiva è
la sua permanenza e capacità di trasmissione nel tempo. Queste saranno ancora
le caratteristiche dell’arte del futuro con differenze certo, ma
sostanzialmente uguali. L’uomo ha una capacità di comprensione e memorizzazione
visiva limitata. Il suo interesse si indirizza a forme antropomorfe, zoomorfe,
geometriche, alla ripetitività, alla attrazione per la luce, al bisogno di
contemplazione. Ritengo che questi saranno ancora i soggetti espressivi del
futuro.
N.Sei stato invitato a
partecipare alle maggiori esposizioni internazionali, La Biennale di San Paolo,
la Biennale di Venezia, tre partecipazioni a Documenta… hai realizzato mostre
personali e installazioni permanenti in tutto il mondo.
So che è
una domanda ormai un po’ alla moda, ma te la pongo ugualmente: c’è qualcosa che
avresti voluto fare, un’occasione mancata, un progetto non andato in porto o
piuttosto qualcosa a cui hai iniziato a pensare soltanto recentemente, “un’idea
di pietra apparsa all’improvviso”?
P. Sì, avvolgere la terra con le mani.